lunedì 12 dicembre 2011

Ricordi d’infanzia: “SU ‘OI FORRÀĨU ” di Giuseppe Mocci

Quando ero ragazzino, forse avevo sei o sette anni, mi ero appassionato a disegnare uccelli, ma in modo particolare quelli che mio padre, cacciatore, portava a casa. I preferiti erano le pernici, le folaghe e le anatre. Io però desideravo disegnare un uccello di cui sentivo parlar male dalla mia nonna paterna, Anna Manca, riolese autentica. L’altra nonna, Rosalia Mannu, nata e cresciuta a Luras in Gallura (altro ambiente, altra cultura, altre abitudini e credenze), non ne parlava male. L’uccello era “SU ‘OI FORRÀĨU".
Ricordo che chiedevo spesso a mio padre di portarmi uno di questi uccelli, di cui tanti parlavano,  ma che pochissimi avevano visto. 
Nonna Anna non gradiva parlarne perché per lei era il Demonio, Su Tiau. Usava ripetere che il canto di questo uccello era il richiamo della morte e, soprattutto, di chi era destinato all’inferno. 
Non avendolo mai visto, ella mi descriveva un animale irreale. Io non riuscivo ad immaginarmelo, ma mi spaventavo sempre quando, nelle lunghe notti invernali, si sentiva il suo lugubre, rimbombante e prolungato verso, simile al muggito di un toro ferito. 
Quando invece mi portava a letto nonna Mannu, la cosa cambiava aspetto. Al canto del mostro, lei rideva  vedendomi nascondere sotto le coperte; allora mi scopriva la testa e mi assicurava che quel mostro non esisteva, che quel muggito era, invece, il canto di un bellissimo uccello che viveva nella vicina palude; e aggiungeva di averlo visto disegnato in un libro.
Ella me lo descrisse come un grosso uccello acquatico dal piumaggio color fulvo, con macchie e striature nere sul corpo, il collo alquanto allungato con piumaggio molto più abbondante ed un becco lungo e appuntito.
Solo a Riola, diceva lei, questo uccello veniva disprezzato; era considerato il nemico dei pescatori perché mangiava molluschi, crostacei e i pesci appena nati, ma si nutriva anche di rane e di insetti acquatici come le zanzare. Passava il giorno ben mimetizzato tra le erbe palustri e usciva al tramonto per nutrirsi, come un famelico rapace notturno. 
Altro ricordo indelebile di quegli anni è la morte di un vecchio possidente. Egli, alto e forte, gran lavoratore, aveva oltrepassato abbondantemente i novant'anni, ma non aveva frequentato la chiesa.
Morì di notte e le beghine, la mattina successiva, al rintocco “a morto” delle campane (is ispiratziõisi), in coro dicevano:
Balla... nontesta adi cantau bẽi su ‘oi forràĩu, za fiada ora chi su tiau chi ddu potéssidi!
Forse solo nonna Rosalia non era d’accordo, ma le riolesi tutte si segnarono. 
Bonificate le paludi, venne a mancare l’habitat e il nostro uccello sparì. Ricordo che un mio vecchio amico, il simpaticissimo commendatore Virginio Sias, dopo quarant’anni di vita militare, diventato cacciatore dilettante (molto dilettante, tanto che i cacciatori incalliti lo consideravano uno “spara fucile”) ebbe la fortuna di abbattere un bell'esemplare di “’oi forràĩu, forse uno degli ultimi.

esemplare di Tarabuso (su 'oi forràĩu)

Non avendolo mai visto, fortemente incuriosito, l’amico lo fece vedere agli esperti dell’Ispettorato Agrario, che lo riconobbero subito; l’uccello era un Tarabuso (nome scientifico: Botaurus stellaris)
La descrizione dell’uccello che fecero gli esperti, riferitami dall’amico Sias, corrispondeva a quella fattami trent’anni prima da mia nonna Rosalia. 
Io e l’amico Sias sapevamo già che questo uccello palustre, considerato un fantasma, ora quasi estinto, era stazionario e nidificava nelle nostre paludi, con preferenza per quelle di Bass’e crésiasituate a valle dell’antica chiesa medievale di Santa Corona, nelle aree adiacenti al fiume. 


Testo di Giuseppe Mocci – tutti i diritti riservati 

Editing G.Linzas 
Revisione dialetto riolese B. Sulas


La leggenda dei morti:  "I tarabusi" (tratto dal sito del  Comune di Riola Sardo )

Prima che le paludi vicine al paese venissero bonificate, ogni venerdì verso sera, si sentivano le urla rauche dei tarabusi. Il terribile muggito dell’uccello, conosciuto come “su boi forraiu” (in latino “bos taurus"), era talmente impressionante tanto che il bestiame che vi pascolava fuggiva spaventato, così pure gli uomini che si trovavano nei paraggi. 
Secondo la superstizione popolare si credeva che queste urla appartenessero a delle anime in pena, ossia alle anime di quelle persone che nella vita terrena si erano comportate male. Dopo la morte la loro anima era andata in possesso del diavolo, pertanto si trovavano nella palude, facendo penitenza.

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