domenica 22 aprile 2012

Memorie: “DA RIOLA A TORINO” di Giuseppe Mocci


Cagliari, Novembre 1950, Bar di via La Marmora, con un amico e compagno di corso all'Univesità a prendere il caffè.
Entrambi eravamo arrivati a Cagliari dai rispettivi paesi per frequentare le lezioni. Abitavamo nella stessa via La Marmora, ma in case diverse; il punto di incontro era il Bar vicino a casa nostra.

Cagliari - via La Marmora

Quel giorno, dopo il caffè, leggemmo i giornali; io l'Unione e l'amico La Nuova. Dopo una chiacchierata benevola sulla Città, che ci appariva bella e interessante, l'amico mi lesse un servizio riguardante il Concorso per Esami per l'ammissione alla frequenza della Scuola Ufficiali dell'Esercito e aggiunse: “Giuseppe, noi dobbiamo fare il servizio militare entro il ventisettesimo anno, laureati o no, questa è la legge. Perché non ci liberiamo subito di questo inconveniente? Adesso siamo giovani, non ci accorgeremo nemmeno delle fatiche, non solo, ma conosceremo altre città e ci divertiremo. A ventisette anni la cosa diventerà più difficile. Che ne dici?
Io non mi ricordavo nemmeno di dover fare il servizio militare e non dissi nulla; il discorso finì lì.
Qualche giorno dopo, di sera, mentre si prendeva il caffè in via Roma, l'amico mi fece vedere la documentazione necessaria per partecipare al Concorso, deciso ormai ad arruolarsi.
Io, in un primo momento, rimasi titubante; poi accettai la proposta dell'amico. Facemmo entrambi la domanda di partecipazione al Concorso, che si tenne a fine dicembre dello stesso anno a Orvieto: prove scritte e orali, visite mediche e prove sportive e attitudinali per una settimana. A Orvieto, però, l'amico non venne; infatti, all'appello risultò assente.
Io comunque rimasi contento del viaggio, soprattutto perché avevo visto, per la prima volta, il continente e, in particolare, Roma, dove rimasi due giorni, affascinato dalla grandezza e magnificenza della capitale.
A Orvieto ebbi il piacere di vedere e ammirare il famoso Duomo e l’altrettanto famoso Pozzo di San Patrizio; monumenti che conoscevo grazie allo studio della Storia dell’Arte al liceo.
A quei tempi, subito dopo il disastro della guerra, erano poche le persone che potevano permettersi un viaggio oltre il Tirreno. Allora i viaggi da e per il continente si effettuavano quasi tutti in nave. E che navi! Queste erano obsolete e per niente confortanti; il viaggio era un vero calvario.

Orvieto - Duomo e Pozzo di San Patrizio

Rientrato in Sardegna e ripresa la frequenza all'Università incontrai nuovamente l'amico “militarista”, che subito si giustificò dicendomi: “Sai, io non ci sono andato a Orvieto perché ho deciso di fare il soldato semplice, il cui servizio è più breve di quello da Ufficiale. Poi non mi sento di fare il comandante di altri uomini, di assumermi certe responsabilità; preferisco essere comandato”.
Ricordo che rimasi sconcertato e non parlammo più dell’argomento.
Non ho avuto più l’opportunità di rivederlo per molto tempo. Lo rividi solo dopo vent’anni, quando io ero funzionario del Provveditorato agli Studi e lui già Maggiore dell’Esercito. In quell’occasione mi raccontò la sua storia; disse di aver fatto prima sei mesi da soldato, poi, pentito, fece il concorso per ufficiale.
In seguito rividi spesso l’amico, ormai pensionato col grado di generale di brigata, quando io, ugualmente pensionato, facevo il revisore legale dei conti, negli anni 1990/2005.

Nel periodo in cui venni chiamato a fare il servizio militare (1950) le nostre Forze Armate erano in fase di riarmo (riorganizzazione).
Nel 1948, infatti, l’Italia dovette subire le conseguenze della sconfitta nella guerra  del 1940/45 contro gli angloamericani, francesi, russi e greci. Ad essa fu imposto un “dictat”, cioè tanti gravosi oneri, tra i quali anche il disarmo delle Forze Armate. L’Italia, inoltre, fu costretta a cedere ai vincitori e loro alleati, come danni di guerra, quasi tutta la flotta (che si era salvata in gran parte) e ridurre enormemente il numero dei militari in servizio effettivo.
Nel 1949 l’Italia venne ammessa all’Alleanza Atlantica, la NATO (U.S.A., Francia, Inghilterra, Canada, Italia e Grecia); alleanza formatasi a seguito dei contrasti con la Russia, che aveva occupato quasi tutta l’Europa dell’Est; la cosidetta “Guerra fredda”.
Da quel momento, l’Italia diede inizio ad una totale riorganizzazione delle sue Forze Armate. Vennero subito reclutate tutte le forze possibili: arruolamento al massimo dei militari di leva, riorganizzazione delle Accademie e Scuole per Ufficiali e sottoufficiali, utilizzazione di mezzi ed armi americane e inglesi. Il tutto, però, sotto il controllo di una Commissione Interalleata (Americani, Inglesi e Francesi).
Io mi sono arruolato in questo triste e umiliante momento. Ricordo che periodicamente questa Commissione veniva nei vari reparti (Esercito, Marina e Aeronautica) per svolgere il controllo.
I nuovi alleati ci avevano dato armi, munizioni e mezzi. Io, da ufficiale comandante di plotone (30 uomini) disponevo di un enorme autocarro americano a tre assi, un carro cingolato leggero inglese, una motocicletta italiana (residuato bellico).
I miei soldati erano armati, alcuni di fucile inglese Enfield con lunga baionetta, altri di mitra italiano Beretta. Il plotone disponeva inoltre di una mitragliatrice e di un mortaio da 90 italiani (anch’essi residuati bellici), di un cannone contro-carro e alcuni bazooca americani.
Le divise erano di stile angloamericano, soprattutto quelle da lavoro: tuta mimetica e bustina (allora non si usava il basco). Gli ufficiali e i sottufficiali vestivano la diagonale per le feste e le cerimonie; gli ufficiali, in quelle occasioni, mettevano anche la fascia azzurra di traverso a tracolla; era sparita l’ingombrante sciabola.
Era rimasta invece l’anacronistica figura dell’attendente.      
In merito alla nomina del mio attendente, che io non volevo, ricordo che il Maggiore Comandante del battaglione mi convocò nel suo ufficio e mi impose di sceglierne immediatamente uno, dicendomi: “Lei non può interrompere una prerogativa tradizionale dell’ufficiale; si ricordi anche che dovrebbe frequentare, oltre al circolo, anche la palestra della scherma e fare un po’ di ippica!”.
Naturalmente, dovetti procedere alla nomina di un attendente; nomina che avvenne in seno al mio plotone. Alla mia richiesta al plotone, schierato in palestra, di un volontario per fare il mio attendente, alzarono la mano tutti.
Scelsi un soldato emiliano, il cui nominativo lo notificai all’ufficio del personale. Dei consigli del Maggiore seguì un po’ di scherma e di ippica.

Superato il Concorso, nel mese di Dicembre, il primo marzo 1951 mi ritrovai a Lecce, a frequentare la Scuola Unica Allievi Ufficiali dell’Esercito (VII Corso) della durata di nove mesi (un anno accademico: metà a Lecce e metà a Cesano di Roma).
Mi sono rimasti ricordi bellissimi di Lecce, chiamata la Firenze delle Puglie, città barocca per eccellenza. Ricordo con piacere, poi,  tutte le altre località che ho avuto modo di visitare (una volta al mese ci portavano in gita di istruzione) come Gallipoli, Taranto, Bari, Santa Maria di Leuca, le grotte di Castellana, nelle Puglie; Roma, Tivoli, Ostia lido,Viterbo, nel Lazio.
Finito il Corso, a fine Dicembre, dopo un gravoso e impegnativo campo invernale di un mese, nella Piana del Volturno, venni promosso al grado di sottotenente dell’Esercito. Qui, in Campania, ho potuto ammirare il famoso Palazzo reale di Caserta e i suoi bellissimi giardini e fontane, ho visitato Napoli e Pompei scavi.



Alla fine del Corso annuale ho avuto occasione di fare alcune valutazioni, sotto l’aspetto morale e culturale dei compagni di Corso, regione per regione  di provenienza, dividendoli  poi  in due gruppi: quello dei laureati, circa il 20% del totale, e i diplomati, la maggioranza. Al primo posto, in assoluto, ho classificato i laureati sardi, poi, a seguire, toscani, piemontesi, veneti, liguri, pugliesi, lombardi, emiliani, siciliani, campani e laziali.
Tra i diplomati, quasi tutti ventenni, la classifica è risultata  uguale a quella dei laureati. In entrambe le categorie ho trovato elementi di grande spessore culturale e morale. I meno dotati, e per giunta spocchiosi, mi sono sembrati i romani, i napoletani , i siciliani e i lombardi.

A fine Corso dovevo fare richiesta di assegnazione della  Sede, indicando in ordine di preferenza, tre sedi. Non esitai nemmeno un istante e  indicai subito le seguenti sedi: Torino, Firenze e Genova.
Nel mese di Gennaio del 1952 venni assegnato al 22° reggimento Fanteria, Divisione “Cremona”, Torino, al comando di un plotone della I Compagnia, I Battaglione.
I soldati a me sottoposti, erano della classe 1929, mentre io ero della classe 1930. Essi, tutti continentali, provenivano dalla Lombardia, dall’Emilia e dalla Calabria.  Anche per i soldati di leva ho fatto una graduatoria, sempre sotto l’aspetto morale e culturale. Al primo posto, in assoluto, ho collocato gli Emiliani,   poi i Calabresi e, infine, i Bergamaschi. Fra questi ultimi ho trovato tanti analfabeti, che, strano, superavano anche i calabresi. Con tutti ho stabilito un’intesa ed una collaborazione quasi fraterna; per alcuni di loro io ero il fratello maggiore, per altri il fratellino. Spesso ho fatto lo scrivano per alcuni  analfabeti, per i quali scrivevo, sotto dettatura, le lettere ai familiari. La simpatia e l’affetto fraterno nei miei confronti mi sono stati dimostrati   al momento del loro congedamento: calorosi abbracci, ringraziamenti e un fiume di lacrime.
Finito il periodo obbligatorio  di servizio militare, preferii rivestire gli abiti civili,  ma non mi sono mai pentito di aver fatto quell’esperienza. Ritengo utile e necessario, per il completamento dell’educazione di un giovane, un po’ di vita militare; cosa che, spesso, ho  raccomandato o suggerito ai giovani. La vita militare insegna il rispetto reciproco con gli altri, l’ordine, l’obbedienza e il riconoscimento della gerarchia e dell’anzianità; soprattutto infonde l’amore per la Patria e per le Istituzioni democratiche. Cose, queste, quasi sconosciute prima dell’arruolamento e che serviranno dopo nella vita civile.  Il servizio militare, inoltre,  offre, “a gratis”, la possibilità di conoscere l’Italia  e i  concittadini di altre Regioni e di confrontarsi con essi.
Io, grazie al servizio militare, ho avuto la fortuna di conoscere buona parte della Penisola: dalle Puglie, alla Campania, al Lazio, alla Liguria, al Piemonte, alla Toscana e alla Lombardia. 
Ma il ricordo più bello resta sempre la bella vita trascorsa in Piemonte e soprattutto a Torino, dove arrivai il 20 Gennaio del 1952, all’età di ventuno anni.
Ricordo ancora il primo impatto con questa città. Uscito dalla stazione di Porta Nuova vidi solo neve, neve e ancora neve. Per una ventina di giorni non rividi il Sole. Non abituato a convivere con la neve, non uscii dalla Caserma per un paio di giorni.
Altro ricordo, ugualmente indelebile, è quello della cerimonia del Giuramento, il giorno dopo l’arrivo in Caserma. In un grande salone, davanti al Colonnello comandante il Reggimento, eravamo schierati noi ufficiali di prima nomina, una ventina; lateralmente, gli ufficiali anziani. Prima di farci leggere, singolarmente, la formula del Giuramento, il Colonnello fece il discorso di circostanza e alla fine evidenziò un fatto, per lui molto importante  e che spiegò dicendo: “Questi giovani Ufficiali sono quasi tutti Piemontesi, due sono Lombardi e tre Liguri, uno invece è Sardo.” Continuando: “ Signori, bisogna fare l’Italia. L’Italia la si fa conoscendola, bisogna conoscere le altre Regioni. Avete visto il tenentino Mocci, sardo di Riola? Anche lui poteva rimanere a Cagliari o a Sassari, invece è venuto qui a Torino!”.
Per questo motivo e penso solo per questo motivo, divenni il pupillo del Colonnello e la cosa mi giovò molto, perché venivo sempre scelto dal medesimo per far parte dei rappresentati il Reggimento a feste, cerimonie e, soprattutto, ai circoli sociali.
Al Circolo Ufficiali venivo spesso invitato al tavolo del Comandante e in modo particolare quando era presente la sua signora e una bellissima sua nipote.
Questo privilegio, però, mi creò l’inimicizia di un paio di colleghi anziani, due siciliani invidiosi, che, prima del mio arrivo, erano stati i beniamini del Comandante.
Non avevo fatto niente per meritarmi tanta attenzione da parte del Comandante; il motivo poteva essere quello della provenienza, lo stesso che prima aveva favorito i colleghi siciliani. Io non ero un bravo ballerino, né mi presentavo di mia iniziativa al Comandante; era sempre lui a chiamarmi.
Torino , allora, era una piccola Parigi , una città opulenta, elegante, che offriva tante manifestazioni culturali ed artistiche.



Come dimenticare le passeggiate invernali sotto i portici di Piazza San Carlo, Via Roma, Via Cernia, Piazza Castello, Via Po; e come dimenticare il Valentino, il Teatro Carignano, il Po, la Basilica di Superga, la Mole Antonelliana, il Museo Egizio e il Museo Nazionale del Risorgimento.
Non dimenticherò mai le eleganti serate danzanti nelle varie balere (così si chiamavano allora le attuali discoteche) di Torino, Vercelli, Asti, di Cesana Torinese, del Sestriere, sulle rive del lago di Viverone.  Certamente non paragonabili alle sale del San Martino o della Mutuo Soccorso di Oristano, né alla sala della Lauc (Associazione Universitaria) di Cagliari. Nelle balere  piemontesi suonavano musicisti di fama, con altrettante famose orchestre, che si sentivano spesso alla Radio.
Torino è stata sempre la mia città preferita; la sognavo da studente, quando studiavo la Storia del Risorgimento; ci andai anche in viaggio di nozze nel 1957; ci sono ritornato tante volte, fino a due anni fa.
Sempre ho fatto visita al mio Bar preferito per bere la cioccolata, al Caffè Torino in Piazza San Carlo; qualche volta sono tornato anche al Teatro Carignano, o sono salito nuovamente sulla Mole Antonelliana.
A Riola, prima del servizio militare, trascorrevo le giornate di svago al  mare,  giocando a pallone nelle aie  o cavalcando un puledro, durante le vacanze estive.
A Oristano, durante l’anno scolastico, frequentavo la palestra del Prof. Severino Ibba e qualche volta la sala da ballo della Mutuo Soccorso e del San Martino. 
A Cagliari, senz’altro una vera città, ho vissuto appena due mesi, prima di arruolarmi; ma dopo il servizio militare ci ho vissuto ben quattro anni, durante la frequenza universitaria. Città bella e accogliente, Cagliari, comunque, non poteva essere paragonata a Torino.


Brevi note storiche sul servizio militare di leva:

La coscrizione obbligatoria in Italia ha inizio nel Periodo Napoleonico (1800/1815) e codificata fin dall’inizio del Regno D’Italia, nel 1861. Essa aveva inizio con la visita di leva per giovani diciottenni, che, se ritenuti abili, erano arruolati intorno ai vent’anni.
Il servizio militare obbligatorio, di leva, durava ventiquattro mesi, fino al 1946; in sardo era chiamato: “Serviziu de permanenti”. Dal 1947 esso fu ridotto a diciotto mesi e nel 1955  ridotto ancora a dodici mesi.
Dal 2005 (con la legge n. 226 del 23/08/2004) il servizio di leva obbligatorio è stato sospeso. Da quella data, le Forze Armate son formate solo e soltanto da volontari. Precedentemente, nel 1995 era stata varata una prima riforma di reclutamento; riforma che prevedeva, oltre al servizio di leva obbligatorio, il servizio volontario e con un’equa retribuzione. Per la prima volta in Italia, dal 1995, possono arruolarsi anche le donne, con gli stessi diritti e doveri degli uomini.
Oggi, le forze Armate sono composte da militari volontari (VFP 1; VFP 4 e Volontario in Servizio permanente effettivo: primo caporal maggiore), da sottufficiali (sergente/maresciallo) e ufficiali in servizio permanente effettivo e raffermati.

Nel 1950, i cittadini italiani di sesso maschile dovevano servire in armi la Patria (servizio militare, detto anche coscrizione obbligatoria, volgarmente Naja), per 18 mesi e con una paga modestissima detta “Deca”, così chiamata perché veniva pagata al soldato ogni dieci giorni. Però chi era in possesso del diploma di Scuola Media poteva concorrere per un posto da sottufficiale: Sergente. Chi era in possesso di un diploma di Scuola di Media superiore o di un diploma di laurea poteva concorrere per un posto da Ufficiale (Sottotenente/Generale). I sottoufficiali e gli ufficiali godevano di un adeguato stipendio. Il servizio prestato da sottoufficiale e ufficiale  assolveva l’obbligo del servizio di leva. Chi voleva far carriera militare si raffermava . L’età massima per partecipare al concorso per ufficiali era di anni 27. L’Ufficiale aveva diritto ad avere un suo attendente, per la pulizia del suo alloggio personale e per quant’altro di natura personale.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati
Editing G.Linzas


Nessun commento:

Posta un commento