mercoledì 20 giugno 2012

"I RIOLESI E LA CACCIA" di Giuseppe Mocci


foto d'epoca: cacciatori riolesi in festa - Pasqua 1930 (*)

S’arrioresu antigu si campàda de pischi e de cassa (cassa pittica e cassa manna). De su pischi nd’éusu zai fueddau, immõi chistionàusu de cassa”.
Anche per la caccia vale l’identico discorso fatto per la pesca. Finito il periodo dell’abbondanza, il riolese, come tutti, ha dovuto ingegnarsi per catturare le prede; ha quindi inventato tante trappole per catturare la gallina prataiola, la pernice, la lepre e il coniglio.
Altrettanto dicasi per la caccia grossa: il cinghiale. La caccia grossa si praticava d’inverno, con piccole squadre di cacciatori.
In origine, prima dell’invenzione dell’arma da fuoco, i cacciatori con i cani scovavano il cinghiale adulto, il più grosso possibile, e lo spingevano a percorrere il sentiero dove era stata preparata la trappola (una buca profonda sul terreno, coperta da frasche).
Una volta che il cinghiale finiva nella trappola, i cacciatori lo prendevano con facilità, uccidendolo con randellate (con “sa matzocca”), e con rudimentali lance.
In un secondo momento, quando le armi furono perfezionate (archi, pugnali e lance), le squadre dei cacciatori scovavano i cinghiali con l’aiuto dei cani e li trafiggevano con le lance e/o con le frecce.
Infine, con l’invenzione dell’arma da fuoco, la caccia grossa diventa ancora più facile. Basti dire che nei primi decenni del secolo scorso furono abbattuti tanti cinghiali, che già negli anni '40 questa bestia era quasi scomparsa.
A Riola era piuttosto famoso il racconto di una battuta di caccia al cinghiale dei primi anni del ‘900. I fatti si svolsero così. Una squadra riolese “de cassa manna” si era appena posizionata nelle collinette di Narbolia, zona Tzuaddìasa, quando un cacciatore inesperto di nome Antonio, non riolese di nascita, sparò una doppietta.
Credendo di aver ucciso un cinghiale, urlava nel suo dialetto per richiamare l’attenzione dei compagni:
Enìde, enìde a biere su sirbone chi appu ochidu deo!
Il capo caccia, di nome Gaetano, accorse subito e vide dietro un grosso cespuglio, sotto un olivastro, un asino disteso per terra, ancora sanguinante.
Urlando, arrabbiatissimo, Gaetano rimproverò Antonio e subito gli intimò di pagare la bestia uccisa al legittimo padrone. Antonio, però, non si scompose; affermò di non aver ucciso quell’asino, ma un grosso cinghiale e aggiunse:
Sa bestia esti inoghe accanta, cun sos canes l’agatamos illegus!
Naturalmente, nessuno gli credette; anzi, alcuni lo derisero con sonore e sarcastiche risate. Nel frattempo, sopraggiunse un pastorello, preoccupato, che interruppe la lunga diatriba tra i cacciatori e chiese loro:
'Scusai, ei bistu unu burricheddu? S’animai esti fuiu de su cuili e no ddu potzu agatai
Il capo caccia, alquanto irritato, indicò al pastorello il cacciatore, autore dell’incidente mortale del suo asinello, dicendogli:
Antonio è uomo ricco e ti risarcirà il danno subito! 
Crasi beĩsi a bidda, crìcasa a mimmi e impari andàusu de Antõi!
Naturalmente Antonio, l’inesperto cacciatore, dovette pagare l’asino e da quel giorno non andò più a caccia. I cacciatori riolesi si beffarono di lui per anni, tanto che quando, nel 1948, io iniziai a fare il cacciatore, (“spara fucile”, usavo un automatico a cinque colpi), ancora si parlava de su sribõi- burricu de Antõi.

La caccia in genere comprende la cattura di qualsiasi animale, “da pelo” o “da penna”. Questi animali, giuridicamente, un tempo erano considerati “res nullius”, cioè non avevano un padrone; oggi, invece, sono tutti di proprietà dello Stato.
Tra gli animali “da penna”, i riolesi catturavano di preferenza le galline prataiole, molto numerose nel Sinis.
Il riolese cacciatore di professione costruiva una grossa gabbia con canne e la posizionava nella zona frequentata dalle galline prataiole. La gabbia, alta 80/90 centimetri, della forma di un cubo, veniva cosparsa all’interno di paglia fresca con un po’ di grano; da un piccolo ingresso, a livello del terreno, si cospargeva altra paglia e grano, ancora per qualche metro.
Le galline, attratte da tanta grazia, mangiando il grano arrivavano fin dentro la gabbia, dove un congegno, appena toccato, faceva cadere dall’alto la porta della gabbia, imprigionandole. Con le stesse gabbie si catturavano anche le pernici.
Cessata l’abbondanza, questo sistema di caccia fu praticato da una decina di riolesi, ancora negli anni ‘30 del secolo scorso. Questi erano dei poveretti che campavano della vendita della selvaggina; gente che non disponeva di denaro per comprare un fucile (I fucili erano ad avancarica con una sola canna e un tiro, a retrocarica con due canne e due tiri, automatici a una canna e più colpi, massimo cinque. Chi praticava la caccia col fucile era un dilettante, e di solito la praticava di domenica o in giorni festivi).

Illustrazione: caccia alla lepre

Fra gli animali “da pelo”, la preferenza dei cacciatori professionali andava alle lepri. Si dava la caccia anche al coniglio, ma solo da parte di agricoltori o allevatori.
La caccia alla lepre, quindi, veniva praticata quasi quotidianamente dai professionisti.
Famoso e molto capace era uno dal soprannome molto significativo, un certoCrozzitu. Egli era capace e intelligente; partiva a piedi la mattina presto con un ampia bisaccia in spalla, attraversava il ponte, poi girava a Pischĩa 'e Càĩsi.
Da questo sito poteva dirigersi in quattro direzioni. Dopo essersi assicurato di non essere visto o seguito, percorreva sempre una strada diversa.
Arrivato nella zona di caccia prescelta, individuava le lepri, allora numerosissime, che brucavano l’erba. Le osservava attentamente, senza mai disturbarle; si sedeva da qualche parte e si fumava il suo sigaro.
Quando il calore del sole si faceva sentire e le lepri si rintanavano per stare al fresco, Crozzitu, che ne aveva osservato i movimenti, si avviava lentamente a dar loro la caccia.
 Il nostro cacciatore si avvicinava piano piano al cespuglio dove aveva visto la lepre rifugiarsi, poi, giunto nei pressi della tana e individuata la posizione della preda, l’afferrava per il collo o la colpiva in testa con la sua “matzocca”.
Catturate in questo modo le sue prede, egli rientrava in paese. Non attraversava mai il ponte con la cacciagione. Preferiva, per motivi di sicurezza, attraversare Sa Paui Manna o Sa Paui de Pramatzu.
Per questo motivo, Crozzitu disponeva di due fassõisi con i quali attraversava il fiume per arrivare a casa, dove non portava mai le sue prede. Egli le nascondeva da qualche parte e con calma le faceva consegnare dai figli ai numerosi clienti (per molti aspetti è rimasto un mistero l’organizzazione di questo cacciatore-raccoglitore).
Ricordo che anche mio padre era un cliente fisso di Crozzitu, e quando desiderava sparare una lepre, lo assoldava per accompagnarlo, pagandogli una buona giornata.
Non dimenticherò mai la scena di caccia alla lepre di mio padre (cacciatore armato di fucile) con Crozzitu. Questo aveva avvistato la preda nella sua tana e invitava mio padre a sparare, indicando la direzione e il cespuglio dove c’era la tana con la lepre:
Spara Allàriu, spara! No ddu bisi su lèpini in cuibi, ananti de tei ?
Mio padre, che vedeva solo il cespuglio, non sparò; lo invitò invece a farla uscire dalla sua tana. Crozzitu, allora, si avvicinò alla tana e prese la bestiola con le mani. Al ché, mio padre s’infuriò perché voleva sparare alla lepre mentre scappava.
Subito dopo, comunque, non mancò occasione. Nel raggio di un centinaio di metri egli sparò almeno cinque lepri, prendendone tre.
Ricordo che Crozzitu non andava a caccia di conigli, perché era troppo faticosa. Di solito, davano la caccia al coniglio gli agricoltori, in quanto, data l’abbondanza di questi animali, i raccolti venivano danneggiati.
Gli agricoltori, individuata la tana dei conigli, con una vanga distruggevano il cunicolo sotterraneo che conduceva alla stessa tana, e con le mani e con i cani prendevano tutti gli “abitanti”. A volte anche sei sette conigli per tana.
Gli stessi agricoltori e anche gli allevatori usavano il laccio di fil di ferro per catturare sia il coniglio sia la lepre. Questi individuavano i sentieri tracciati dai piccoli animali lungo le siepi di rovo che delimitavano i terreni e vi collocavano il laccio, ben nascosto dal rovo e dall’erba.
Questo strumento era, ed è ancora, un’arma formidabile; non sbaglia mai.
Per la caccia al coniglio si usava anche un animaletto, il furetto, un piccolo mammifero che stanava i conigli. Erano pochi quelli che lo usavano, perché costava molto l’acquisto e poi si doveva spendere tutto l’anno per mantenerlo.
A proposito del laccio, ricordo di aver visto, per la prima volta, la cattura di una lepre con questo strumento nel mese di agosto del 1946.
 Mi trovavo al mare, a S’archittu, assieme a tanti altri riolesi villeggianti, tutti accampati in capanne di frasche, come si usava allora; non si andava più a Su Pallosu, perche le spiagge del Sinis erano state minate durante la guerra e non si era provveduto ancora a una completa bonifica della zona dagli ordigni esplosivi.
Il sabato e la domenica, all’alba, un vecchietto passava davanti all’uscio della nostra capanna con un sacchetto di tela di juta sulle spalle e in mano un cestino (ũ scatteddu”). Io, incuriosito, un sabato lo seguii a debita distanza e vidi, per la prima volta, l’uomo raccoglitore-pescatore-cacciatore.
Il vecchietto, quel sabato, raccoglieva polpi e qualche pesciolino da frittura, che metteva nel sacchetto. La cosa più interessante era la raccolta dei polpi con le mani. Spesso il polpo piccolo riusciva a scivolare dalle mani e a introdursi in qualche spaccatura della roccia o, a volte, nella sua stessa tana. Ma il vecchietto, in queste circostanze, non disarmava.De su scatteddu pigada ũa pedra pittica de bidr‘e arràmini accappiada a ũ cantu de ispagu e dda fadìada intrai innui si fìada cuau su prupu”.
Era uno spettacolo molto bello. Ricordo di aver visto il polpicino uscire a razzo dalla sua tana e finire in “su scatteddu” del vecchietto.
Il giorno dopo, la domenica, sempre all’alba per non essere disturbato, il medesimo vecchietto passò davanti al nostro uscio, ma non aveva l’attrezzatura del giorno prima; egli aveva una sacchetta di tela sulle spalle. Lo seguii nuovamente.
Egli non si fermò a pescare; andò avanti, verso l’Arco, e si fermò a controllare un grosso cespuglio di cisto misto a mirto. Poi passò oltre e nel successivo cespuglio, appesa per il collo, trovò una lepre.
Io, che mi trovavo dietro al vecchietto qualche metro, mi avvicinai e gli chiesi:
Ma su lèpini no ad’essi mottu deddiora e zai pudessiu?
Il furbo cacciatore-raccoglitore-pescatore, che non voleva svelarmi i suoi segreti di caccia, mi rispose:
Su lepini esti mottu nontesta, esti ancora callenti. S’esti introbeddau ĩ ũ pitzueddu de fiaferru e ddu esti abarrau.
Dal lunedì al venerdì il vecchietto non c’era ed io ebbi campo libero. Mi attrezzai del necessario per pescare e cacciare e ogni mattina portavo in capanna polpi o una lepre.
Ricordo la meraviglia di mia sorella Adele. Il primo giorno che portai in capanna il mio pescato, ella volle sapere la provenienza dei pesci  e come avessi fatto a pescarli. Chiarito il mistero, ella poi dovette cucinare tutto ciò che portavo durante la settimana. Ero diventato anch’io un raccoglitore-pescatore-cacciatore.

foto d'epoca - Caccia a Paui Trottas (*)

I riolesi (is arriorèsusu), poi, usavano molto andare a caccia o raccolta di uccelli acquatici. La raccolta consisteva nel prendere i piccoli, che non sapevano ancora volare, con dei coppi a canna lunga. Si usava anche fare la raccolta delle uova delle anatre, che covavano in tutte le numerose paludi di Riola.
La caccia col fucile si praticava sulle anatre, soprattutto il Germano Reale, grosso, grasso e prelibato. Si dava la caccia anche alla folaga (sa puiga), un uccello acquatico poco prelibato che sa di pesce. Solo i più poveri la compravano perché costava poco.
Fino agli anni ‘60 del secolo scorso, i padroni dello stagno, i così detti “Baroni della Laguna”, organizzavano una o due volte l’anno, in inverno, le battute alle folaghe, le famose arragatu.
A queste battute erano invitati centinaia di amici cacciatori dei “Baroni”, ai quali si accodavano tanti altri cacciatori di Riola, Nurachi e Baratili. Questi ultimi, naturalmente, si appostavano ai margini dello stagno e sparavano le folaghe e le anatre che erano sfuggite ai cacciatori ospiti, che operavano al centro dello stagno, forniti di barche a motore, per inseguire i numerosi acquatici.
Ad eccezione delle battute "de s’arragatu, la fologa non veniva sparata quasi mai. Al riguardo, io ricordo di aver sparato una folaga solitaria, bella e grossa, lungo il canale, in zona Pramatzu.
Mi sembrava un altro uccello, di quelli che arrivano da lontano, per riposarsi e poi ripartire, quindi non stanziale. La abbattei al primo colpo e cadde al centro del canale. Il mio cane, un setter inglese meraviglioso, si lanciò in acqua per il riporto; ma quando arrivò sulla folaga, dopo averla annusata, rientrò da me senza la preda.
Mentre guardavo con stupore il mio cane, sopraggiunse un altro cacciatore con un bastardino, al quale raccontai l’accaduto. Questi invitò il bastardino a entrare nel canale per cercare e riportare la grossa folaga. Questo cagnolino si tuffò nel canale e, in pochi minuti, rientrò da noi con la preda in bocca.
Mi congratulai col collega al quale offrii pure la folaga. Gentilmente il collega rifiutò l’offerta e mi disse che i cani di razza, come il mio, non sono idonei alla caccia agli uccelli acquatici.
Per me fu una scoperta che non rimase l’unica. Infatti, tornato a casa, feci cucinare la folaga e la offrii, ben condita, al mio cane. Questo si avvicinò alla pentola dove c’era il suo pranzo, annusò e andò via.
Raccontai dopo a mio padre il comportamento strano del mio cane. Lui, sorridendo, mi confermò quanto raccontatomi dal cacciatore incontrato lungo il canale e aggiunse:
.... e is  càĩsi de arratza mancu ndi pàppanta de pillõi 'e abba!”


Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati


Editing G. Linzas 
Revisione  dialetto riolese B. Sulas

(*) Foto d'epoca tratte dal libro di Claudio A. Zoncu "Zenti Arrioresa"


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