lunedì 4 giugno 2012

"I RIOLESI E LA PESCA" di Giuseppe Mocci

Gli abitanti del territorio di Riola, fin da quando si sono insediati sulle rive di Mare 'e Foghe, hanno praticato sicuramente la pesca, costituendo i pesci l’alimento più importante della loro dieta, assieme alla selvaggina.
Essi pescarono, oltre che sul fiume e nelle paludi, anche nello stagno più grande di "Mare 'e Pontis", oggi chiamato Stagno di Cabras. Forse, più che di pesca doveva trattarsi di raccolta, data l’abbondanza dei pesci. La pesca vera e propria fu frutto dell’intelligenza dell’uomo, quando finì l’abbondanza.
S’arrioresu praticò la pesca in vari modi: con la fiocina, con l’amo, con la rete e con sa lua", un'erba un po’ velenosa che tramortisce i pesci, soprattutto i muggini.
Per secoli i riolesi, senza alcuna distinzione, sono vissuti di pesci e di selvaggina; poi, pian piano, diminuendo questi due alimenti liberamente disponibili in natura, si sono dati all’agricoltura e all’allevamento del bestiame per produrne altri (i cereali e la carne).

foto d'epoca: pescatori Riolesi nelle paludi di Mare 'e Foghe

Fino agli anni ‘40 del secolo scorso, ad Arriora, c’erano ancora molti pescatori di professione, tutta povera gente che esercitava la pesca, a pagamento, lungo il fiume e nello stagno di “Mare 'e Pontis”, allora di proprietà privata.
In questo stagno, però, si poteva pescare solo pochi mesi l’anno e con i modesti strumenti imposti dai padroni (piccole reti, fiocine e palamiti, che erano costituiti da tanti ami appesi a fini cordicelle non molto lunghe); non solo, ma questi pescatori dovevano rispettare rigorosamente, pena l’espulsione, un regolamento rigidissimo.
Essi conducevano una vita grama, a stento portavano a casa un modesto guadagno, senz’altro inferiore a quello di un salariato agricolo; per loro, tuttavia, era più importante non andare a padrone, poiché erano troppo amanti della loro fittizia libertà.
Generalmente pescavano al mattino, massimo tre ore; durante le ultime ore del pomeriggio raccoglievano vermi per innescare gli ami. Ricordo, e mi pare di vederlo ancora, un vecchio pescatore, un certo signor Ledda, con una zappetta che frugava il terreno antistante al fiume per raccogliere i vermi.
In quel periodo molti riolesi, agricoltori e allevatori, esercitavano ancora la pesca libera nei numerosi stagni che circondano il paese. Questa pesca si effettuava tutti gli anni a primavera, quando l’acqua dai piccoli stagni rientrava nel grande stagno ad esso confinante, e dal quale, durante l'inverno, erano arrivati i muggini, le anguille, le carpe e le tinche, per effetto delle abbondanti piogge che lo avevano fatto tracimare.
Ricordo che in quegli anni, a primavera, noi riolesi eravamo tutti pescatori liberi. Non dimenticherò mai un’abbondante pescata fatta da me e dai miei compagni, tutti dodicenni, nello stagno diPaui Trottas.
Eravamo almeno trenta ragazzi e tanti adulti, tutti forniti di fiocina e sacchetto, schierati l’uno di fianco all’altro. Facemmo un grande bottino, anche con la semplice raccolta dei pesci e delle anguille che, nella poca acqua rimasta, cercavano di raggiungere il vicino stagno di “Mare 'e Pontis”.
Un altro importante metodo di pesca, praticato a Riola fino agli anni ‘30 del secolo scorso, era una sorta di “piscicoltura”, cioè di allevamento dei pesci. Questa non si praticava in mare, ma nelle zone paludose di “Mare 'e Foghe”, e precisamente in due ben distinte località: Paui de Bass'e Crésia e "Su ingrõi de su dattori ĩ sa Paui de Pramatzu".
Gli allevamenti consistevano in lunghi e profondi fossati, perpendicolari alla linea del fiume, numerosi e paralleli l’un l’altro. Vi si allevavano soprattutto anguille e muggini, che arrivavano dal vicino fiume Rio Mannu con le inondazioni invernali.
I fossati erano fatti dai pescatori dilettanti, ma non dai pescatori di professione. Ricordo che una volta, avrò avuto cinque o sei anni, mio nonno, che era un muratore, mi condusse a vedere l’allevamento di "Bass'e Crésia", di cui lui era proprietario assieme ad altri amici.

zona palustre di "Bass'e Crésia"

Ricordo perfettamente che si usava un coppo per raccogliere le anguille, i muggini e gli altri pesci che si trovavano nella “camera della morte”, posta di fronte alla capanna di frasche del guardiano. Questi pescatori erano mal visti dai titolari/padroni che avevano i diritti di pesca sul fiume, e anche dai pescatori di professione.
Un elemento particolare di sicurezza dal punto di vista legale, che rendeva indipendenti e tranquilli i “piscicoltori” dilettanti, era costituito dal fatto che i fossati venivano scavati a una decina di metri dal fiume, ma non collegati al medesimo; quindi, non ledevano i diritti dei “padroni” del Rio Mannu. L’acqua abbondante dell’inverno faceva tracimare il fiume e allagava tutte le paludi limitrofe, riempiendo i fossati d’acqua e di pesci: anguille, muggini, carpe e tinche.
Io ricordo anche che d’inverno il fiume spesso era pieno di muggini; i piccoli erano chiamati folla 'e uia, mentre quelli di media pezzatura bidimbua. Allora numerosi riolesi (tutti pescatori dilettanti) si organizzavano per pescare quel ben di Dio. 
Prima di lanciare dal ponte s'arrattallu - una rete a forma di paracadute con piombi che la chiudevano alla base - erano messe di guardia all’ingresso del paese, lato Nurachi, due persone in bicicletta. Una di queste aveva il compito di fermare, con un pretesto qualsiasi, le guardie giurate dei "padroni" del fiume che eventualmente arrivassero, mentre l’altra faceva la spola al ponte per dare l’allarme o il via libera.
Era uno spettacolo bellissimo vedere s'arrattallu volare in alto e cadere sull’acqua del fiume, per poi risalire, piano piano, carico di pesci. Tutti i presenti partecipavano alla spartizione del grande bottino.
Questo sistema di pesca si ripeteva, d’inverno, solo quattro o cinque volte, perché “Su Spadu” e i suoi sgherri sorvegliavano assiduamente la zona del ponte. Ricordo anche che, spesso, questi vigilanti erano bersagliati dai riolesi, nascosti negli abbondanti canneti palustri lungo il fiume, con fionde e “tirallasticusu”.
La pesca in mare - in riolese e cabrarese chiamato mari biu (cioè mare vivo, per distinguerlo dalle acque interne, quali fiumi, stagni e lagune) - i riolesi non l’hanno praticata fino agli anni ‘50; forse perché richiedeva una solida imbarcazione e costosi attrezzi, oltre ad avere una pur minima conoscenza del mare e dei suoi pericoli. 
Comunque, nei primi decenni del secolo scorso, praticavano una semplice pesca o raccolta, nelle spiagge e lungo le scogliere, due o tre vecchietti. Io li ricordo bene, perché uno di questi, Tziu Codra, portava a casa nostra, due volte la settimana, polpi, seppie, attinie (ortziada), murici (buccõisi) e murene. Sì, murene; ne ricordo una enorme, che accarezzavo pensando che, da adulto, l’avrei voluta pescare anche io. 
Era tutta roba pescata lo stesso giorno, perché questi vecchietti partivano al mattino prestissimo, tre ore prima dell’alba, e portavano ai loro clienti i pesci ancora vivi in mattinata. 
Ricordo che il nostro vecchietto pescatore, a una mia domanda sulla grande fatica che doveva affrontare per arrivare al mare e rientrare in paese a piedi, mi rispose:
Deu andu a piscai ĩ  mari biu dua bòttasa a sa chida, guadanzu prusu de is piscadòrisi de frùmini e poi no dipendu de nissũsu. Su pru bellu esti che no pagu tàssasa!


Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

Editing G. Linzas -
Revisione dialetto riolese B. Sulas.

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