martedì 7 agosto 2012

"L'INNAMORATO" di Giuseppe Mocci

Tra i sedici e i vent’anni un giovane, di entrambi i sessi, può essere veramente innamorato? A mio parere, la risposta è: sì, pochissimi; no, la maggioranza. Io, naturalmente, mi riferisco a sessant’anni fa, quando anch’io ero un giovanotto ed abitavo ad Oristano.
Allora, quasi tutti i giovani maschietti, come le farfalle o le api, si posavano di fiore in fiore; cioè corteggiavano le belle coetanee, ma non soltanto una: tutte. Anche le giovani donne osavano un cauto corteggiamento del “bello” del reame: cioè della stessa classe scolastica, della via Dritta, del quartiere o del proprio paese.

Cartolina d'epoca: Oristano, via Dritta (Corso Umberto I)

I corteggiamenti finivano, di solito, in una sorta d’innamoramento, un invaghimento di breve durata. Questo era “fare l’amore”, "pivellare". La coppia innamorata s’incontrava spesso in via Dritta, quando la ragazza era molto timida, oppure in vie poco frequentate; al massimo si andava a San Martino, nei giardinetti, per le effusioni più “hard”. A Riola la cosa era molto complicata.
Allora, quasi mai si faceva sesso, perché per la maggioranza delle ragazze era un tabù difficilissimo da superare; forse anche perché allora non c’erano i contraccettivi. I ragazzi, invece, facevano sesso a pagamento nella “casa chiusa” di via Gallo o in qualche casa di appuntamento.
Comunque, qualche vero innamoramento accadeva anche allora. Ricordo di un giovanotto che si era innamorato follemente di una sedicenne, mia compagna di classe in terza media. Il ragazzo non la mollava mai; la accompagnava a scuola, all’ingresso, e la riprendeva all’uscita, tutti i giorni. La domenica la accompagnava in chiesa. I due erano sempre in giro a braccetto, e pare che nessuno li abbia mai visti scambiarsi pubblicamente un bacio. Il motivo fu chiarito dai bene informati; gli innamorati si trovavano anche in casa dei rispettivi genitori, a giorni alternati, quindi non c’era motivo di baciarsi in pubblico. Il giovanotto, dopo un annetto di fidanzamento, trovò lavoro e subito dopo portò sull’altare la sua fidanzata. Naturalmente, la maggioranza dei giovanotti "pivellatori" lo giudicarono un "pollastro".
Fare l’amore, allora, significava “pivellare”, corteggiare; non voleva dire fare sesso. Oggi, invece, fare l’amore ha principalmente questo significato. Al riguardo cito alcuni episodi capitati di recente a Oristano di sesso sfrenato e fatto, “coram populo”, in piazza (episodi di piazza Roma e piazza Eleonora). Il cronista Antonio Masala, nell’Unione Sarda del 26 e 27 luglio scorso, racconta di detti episodi e conclude definendo Oristano: “città godereccia…, di città del sesso sfrenato, delle notti hard più spinte”.
La definizione del Masala non deve meravigliare più di tanto, se non per il fatto che certi comportamenti si sono verificati in pubbliche vie o piazze. Anche ai miei tempi Oristano godeva della stessa fama, ma il sesso si praticava lontano dagli occhi dei cittadini, in vicoli e viuzze non praticate, in campagna e, soprattutto, nelle numerose case di appuntamento. Per i meno intraprendenti c’era poi il casino in via Gallo, estrema periferia della città. Nelle case di appuntamento si prostituivano ragazze e signore provenienti dai paesi vicini, Riola compresa.
Io ho avuto occasione di conoscere, durante la frequenza della Scuola Allievi Ufficiali, un altro “pollastro”; un collega, innamoratissimo della sua ragazza, che abitava in Sardegna, in un paese del cagliaritano. Caso, questo, rarissimo, da considerare innamoramento vero e casto per un giovane ventenne. Questi scriveva alla fidanzata due lettere al giorno; una di mattina e l’altra di sera. Non usciva mai in libera uscita; ricordo che egli mi accompagnava tutte le sere, fino alla porta della Caserma. Al mio rientro, chiedeva a me e agli altri colleghi di raccontargli le nostre avventure romane.
Era un’ottima persona, gentilissimo e ligio ai doveri di un allievo ufficiale. Alle adunate arrivava sempre per primo e collaborava in tutti i sensi con i superiori.
Ricordo che una volta mi rimproverò bonariamente perché non percorrevo interamente il percorso del campo da tremila metri piani. Succedeva infatti che, due volte la settimana, dopo due ore di ginnastica in palestra o sul campo sportivo, il nostro istruttore, un capitano dei bersaglieri, ci faceva percorrere i tremila metri prima del rientro in camerata. Io e un collega romano, appena percorsi duecento metri, ci buttavamo a sinistra, tra l'erba, e strisciando raggiungevamo la pista del ritorno; in pratica percorrevamo quattro-cinquecento metri dell'intero percorso.
Onde evitare commenti sul suo comportamento, un giorno, mentre mi accompagnava alla porta della caserma,  mi disse: “Giuseppe, io voglio far carriera militare e, per questo, io studio molto, mi applico con impegno; non esco in libera uscita perché sono fidanzato e non voglio correre il rischio di tradire la mia ragazza. Sai, io le scrivo tutti i giorni, una lettera di mattina e un'altra di sera.”. Non so come, sentì questo discorso un collega cagliaritano, il quale gridò stupefatto: "Pitticheddu su cagalloni! O Mocci, fullianceddu a mari. Oi puru nosus andaus "al Piper"". Questo era un famoso locale notturno dove si andava per conoscere ragazze. L'intrusione volgare del collega cagliaritano m'irritò alquanto. Comunque col collega innamorato, il simpatico "pollastro", rimanemmo amici.
Egli, promosso ufficiale, si raffermò e subito dopo portò sull’altare la sua amatissima fidanzata. I due ebbero cinque figli e vissero felici e in armonia. Il nostro ufficiale fece poi una carriera bellissima, raggiungendo il grado di Generale di Divisione.
Quando comandava un grosso e importante reparto in Sardegna, per lungo tempo, il nostro ufficiale m’invitava spesso alle varie cerimonie che si tenevano in Caserma. Ci siamo scambiate visite familiari, per tanti anni.
Ora egli è vedovo, un po’ triste e sconsolato. Da ottuagenari ci sentiamo al telefono spesso e ci consoliamo reciprocamente.                        

Testo di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati.
Editing G.Linzas

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